venerdì 23 dicembre 2016

L'infermiere e la ricerca... quali possibilità di formazione post base?

Qualche anno fa mi era stato proposto di partecipare ad un progetto di ricerca...
... inutile dirvi che la delusione è stata enorme quando, nel chiedere maggiori informazioni sul mio ruolo all'interno dello studio, ho capito che mi si chiedeva semplicemente di eseguire il mio lavoro in un ambulatorio cardiologico... eseguire ECG, prelievi, rilevare parametri vitali... insomma niente di diverso rispetto a quello che già facevo... la differenza era che le mie prestazioni erano rivolte a soggetti facenti parte di uno studio clinico...
 
In quell'occasione ho risposto: "no grazie!"
 
Nella mia visione romantica per un infermiere fare ricerca voleva dire fare "ricerca infermieristica"!
 
Qualche settimana fa nella mia posta aziendale è arrivata una mail interessante...
...L'Università Vita Salute del San Raffaele ha attivato la prima edizione del Master Universitario di primo livello per Infermiere\Ostetrica di Ricerca (Clinical Research Nurse\Midwife)... incuriosita sono andata ad ascoltare la presentazione della proposta formativa...
 
La novità del Master rispetto a quelli già presenti sul mercato è che l'obiettivo è di formare figure in grado di assistere con la massima competenza i soggetti inseriti in trials clinici di alto livello... Da cosa nasce l'esigenza di istituire un corso del genere?!
 
Sembra che le aziende farmaceutiche (maggiori sponsor della ricerca clinica) riconoscano un valore aggiunto alla qualità dello studio condotto se all'interno del team ci sia la figura del Clinical Research Nurse!!

Riflettendoci su, con qualche anno in più e qualche esperienza fallimentare in cui ho provato nella mia realtà lavorativa a condurre piccole ricerche "fai da te" concluse con analisi di dati piene di bias, ad oggi penso che questa proposta di formazione post base non sia affatto male... se qualcuno di voi fosse interessato alla cosa vi rimando al sito dell'UNISR.
 
Per chi invece pensa che non vuole fare l'infermiere di ricerca ma l'infermiere ricercatore... beh si sa il percorso è un altro  e più tortuoso... ci tocca la magistrale e il dottorato...

giovedì 29 settembre 2016

Divertiamoci con l'EGA



INTRODUZIONE
L’emogasanalisi (EGA) rappresenta uno degli esami fondamentali, se non quello “principe” in urgenza, poiché ci garantisce un’ottimale quadro di lettura sulla ventilazione alveolare, gli scambi gassosi, il pH ematico e l’equilibrio acido-base (EAB). In particolare l’EAB costituisce una “spia” di importanti funzioni come lo stato di idratazione (pazienti disidratati solitamente presentano un’alcalosi metabolica) e la circolazione (molte volte i pazienti in stato di shock presentano acidosi metabolica).

L’esame consiste in un prelievo arterioso a livello dell’arteria radiale, brachiale o femorale; può essere anche eco-guidato. Il sangue intero è prelevato tramite una siringa eparinata all’interno della quale non devono esservi bolle d’aria al fine di evitare un’alterazione dei valori biochimici gassosi del campione prelevato.


Si tratta di un esame estremamente frequente in ambiente ospedaliero che però cela dietro di sé un mistero per molti infermieri: come interpretare in modo corretto i dati fornitici dal “Dio” emogasanalizzatore? Questo articolo cercherà di fornire in maniera concisa e sistematica le basi per una corretta interpretazione di un referto emogas.

Prima però di adentarci nel vivo del discorso occorre fare un ripasso sulla fisiologia.

domenica 25 settembre 2016

Frequenza Respiratoria: un parametro incompreso




Tipicamente, durante la valutazione dei pazienti il parametro più sottovalutato, molto probabilmente perché non compreso, è la Frequenza Respiratoria (FR); un parametro vitale “snobbato” che invece rappresenta un’importanza cruciale in alcune situazioni cliniche.
Inquadriamo meglio quella che è la FR e successivamente i problemi che un’alterata FR può dare.


La Frequenza Respiratoria indica semplicemente il numero di atti ventilatori compiuti in un minuto dalla persona. Un atto ventilatorio (più comunemente atto respiratorio) è composto da una fase inspiratoria che è generata dall’azione dei muscoli respiratori (e talune volte dai respiratori accessori) che garantiscono l’espansione della gabbia toracica e una espiratoria, normalmente passiva, garantita dalla forza elastica accumulata durante l’inspirazione che riporta la cassa toracica alla posizione iniziale.
La frequenza respiratoria degli adulti e di 7-20 atti respiratori/minuto. I bambini respirano più velocemente degli adulti: tanto minore e l’età, tanto maggiore e la frequenza respiratoria (i valori più alti si riscontrano nei neonati). In seguito ad uno sforzo fisico, aumenta la frequenza respiratoria. Per patologie polmonari od alterazioni del respiro non di pertinenza polmonare, la frequenza respiratoria può essere aumentata o ridotta. L’aumento viene definito tachipnea, la riduzione bradipnea. Con la sola frequenza respiratoria non si può definire la qualità della ventilazione. Altri termini degni di nota sono: Ipoventilazione che indica un respiro superficiale e talune volte irregolare; Iperventilazione aumento della profondità degli atti respiratori.
Sono stati identificati inoltre alcuni tipi di respiro patologico che sono identificabili appunto dalla rilevazione corretta della FR.

domenica 11 settembre 2016

La somministrazione di EBPM: cosa raccomanda la letteratura?

Vi è mai capitato di confrontarvi con i vostri colleghi su come si esegue una iniezione sottocutanea?
A me tante volte... e nel corso degli anni ho notato come ci sia un'altissima variabilità riguardo a tanti passaggi... Incuriosita dalla cosa, smanettando su internet, ho trovato un bel po' di materiale... 

Una revisione sistematica sulla tecnica di somministrazione dell'EBPM (Franco de Campos et al, 2013) stabilisce e motiva alcuni criteri di buona pratica assistenziale come:

- Il calibro dell'ago utilizzato dovrebbe essere di piccole dimensioni (25-27 G);

- La bolla d'aria presente nella siringa pre-riempita è volta a promuovere l'emostasi nel sito di iniezione (Gomez et al, 2005);

- La regione addominale viene considerata la più idonea per la somministrazione delle EBPM, poichè contiene uno strato di tessuto sottocutaneo spesso, minimizzando il rischio di stravaso del farmaco. Si raccomanda di evitare la zona ombelicale per circa 5cm (al fine di evitare la vena ombelicale) e di evitare di eseguire le iniezioni nelle sedi di cicatrici o lividi (Kuzu, Ucar, 2001);

- Il sollevamento della plica ha lo scopo di elevare il tessuto sottocutaneo, aumentando la distanza dal muscolo sottostante;

- L'inserzione dell'ago con un angolo di 90° viene considerata la più appropriata per assicurare l'iniezione del farmaco nel sottocute, un'inclinazione diversa aumenta il rischio di somministrazione intradermica;

- Per quanto riguarda il tempo di somministrazione, come già detto nel post Somministrazione dell'EBPM: il giusto tempo, si consiglia l'iniezione lenta (30 secondi) al fine di ridurre il dolore e l'insorgenza di ecchimosi ed ematomi.

Riassumendo quindi la tecnica corretta di iniezione sottocutanea di EBPM prevede di:

- scegliere preferibilmente la regione addominale come sito di iniezione, in alternativa l'esterno della coscia e come ultima sede disponibile la parte latero-posteriore del braccio;
- evitare di scegliere come sede di iniezione zone dolenti, che presentano lividi o ferite chirurgiche;
- utilizzare aghi lunghi non più di 8mm e di piccolo calibro (25-27 G);
- Non eliminare la bolla d'aria presente all'interno della siringa;
- Sollevare delicatamente una plica cutanea tra pollice ed indice;
- Inserire l'ago nella cute con un angolo di 90°;
- Non eseguire la manovra di Lesser;
- Mantenere la plica cutanea per tutto il tempo di somministrazione del farmaco;
- Iniettare il farmaco in 30 secondi;
- Applicare una lieve pressione sul sito di iniezione dopo aver estratto l'ago (Tamponare senza strofinare).

Uno studio osservazionale condotto in Italia (Ferri et al, 2012) su 36 infermieri ha evidenziato come in realtà vi sia elevata variabilità nella tecnica di iniezione sottocutanea di EBPM... certo il campione è troppo piccolo per poter generalizzare sull'intera popolazione... ma la mia sensazione (rispetto alla mia esperienza) mi porta a pensare che la realtà non sia poi così diversa...
  

martedì 23 agosto 2016

Il sonno dei giusti

Quante volte vi è capitato che i pazienti vi dicessero "Scusi non riesco a dormire, mi da le goccine?"... tra l'altro la maggior parte delle volte alla richiesta "Ma a casa prende qualcosa per dormire?" la risposta è "No, no! Ma in ospedale proprio non riesco a dormire!"...

La quantità e qualità del sonno del paziente ospedalizzato è stato un tema trattato da diversi studi, dai quali si evince la percezione di una scarsa qualità del sonno in ospedale.

Le cause maggiormente citate dai pazienti, in ordine percentuale decrescente (Dobing et al., 2016) sono:
- la presenza di rumore eccessivo (ad opera di altri pazienti, operatori sanitari, macchinari ospedalieri);
- le interruzioni legate alla somministrazione di farmaci o alla misurazione dei parametri vitali;
- i letti scomodi;
- l'illuminazione eccessiva;
- l'ambiente non familiare;
- il dolore;
- l'ansia legata all'ospedalizzazione o allo stato di salute.

Questo ha spinto l'American Accademy of Nursing a inserire tra le quindici raccomandazioni del Choosing Wisely quella di "Non svegliare il paziente per le cure di routine, a meno che le condizioni cliniche non lo ritengano necessario".

Questa raccomandazione trova le sue fondamenta nel fatto che la privazione del sonno influisce negativamente sulla respirazione, sulla circolazione, sulle difese immunitarie, sui tempi di guarigione della ferita chirurgica, sulla funzione ormonale e sul metabolismo del soggetto. Porta  inoltre ad un aumento dell'insulinoresistenza, della percezione del dolore e viene infine collegata ad un aumento dei deficit della memoria, a delirio, depressione e disturbi della sfera affettiva (Pilkington S. 2013; Kamdar et al., 2012).

Si è ipotizzato inoltre che i pazienti che fanno esperienza di insonnia in ospedale presentino un maggior rischio di insonnia cronica per i mesi e gli anni a seguire (Griffiths, 2005)...

Di contro, i farmaci utilizzati in regime ospedaliero per favorire il riposo possono provocare un aumento del rischio di cadute, soprattutto nella popolazione anziana.

In effetti alcuni accorgimenti nella nostra organizzazione del lavoro potrebbero portare ad un maggior comfort del paziente durante la degenza ospedaliera...

Fermo restando che in un reparto chirurgico sia necessaria la monitorizzazione dei parametri vitali nelle prime 24 ore dall'intervento al fine di riconoscere precocemente eventuali complicanze legate alla chirurgia, spesso però si "disturbano" i pazienti anche quando non è necessario... ad esempio con il giro dei parametri a tappeto per tutto il reparto alle sei del mattino! O con i prelievi di routine sempre alle sei! Oppure con la terapia antidolorifica ad orari prescritta alle due o alle quattro di notte (eh si.. posso assicurarvi che in alcuni posti esistono anche questi orari di prescrizione!).

Ma siamo sicuri che almeno su questo non possiamo intervenire cambiando le nostre abitudini?



martedì 16 agosto 2016

Somministrazione dell'EBPM: il giusto tempo

Ogni infermiere ospedaliero si ritrova quotidianamente a somministrare eparina a basso peso molecolare... le cosidette "punturine per prevenire la trombosi venosa"... ma siamo sicuri di somministrarle nel modo corretto?

Fermo restando che anche sulla modalità di somministrazione (sottocutanea) c'è a mio parere ancora molta confusione (sito, inclinazione dell'ago a seconda della tipologia di ago utilizzato), oggi vorrei soffermarmi su un altro aspetto: in quanto tempo va eseguita l'iniezione? 

Quando ero studentessa nel 2004 qualcuno mi aveva detto "lentamente"... ma rispetto ad un volume così piccolo di farmaco (in media 0,4ml), cosa vuol dire lentamente?

Un paio di anni fa, per la mia tesi in Scienze Cognitive e Processi Decisionali, durante una ricerca bibliografica mal condotta (ero a caccia di studi riguardanti il rischio di misidentificazione), mi sono imbattuta in uno studio Australiano (ahimè ora che volevo trovarlo invece niente!!... devo sicuramente lavorare sulle mie qualità di ricercatrice di fonti!!!) il quale affermava che circa il 50% dei professionisti osservati durante la somministrazione di EBPM eseguiva l'iniezione in meno di dieci secondi (considerato il tempo minimo di somministrazione)... da quell'errore casuale commesso, ho iniziato anch'io a "rallentare"... per poi scoprire che già quella viene considerata la "tecnica veloce"!

Gli effetti indesiderati dell'EBPM più comuni sono: dolore durante la procedura, formazione di ecchimosi e di ematomi.

Diversi studi hanno ipotizzato una correlazione tra la velocità di somministrazione e tali effetti, tanto da incuriosire la Cochrane che nel 2014 ha condotto una revisione sistematica che però alla fine è riuscita a reclutare un solo studio, concludendo che sarebbe consigliabile la somministrazione lenta... motivo per cui ancora ci si lavora su...

Sembrerebbe che somministrare il farmaco in trenta secondi porti ad una riduzione significativa della formazione di ecchimosi, e che tamponare per almeno dieci secondi dopo l'iniezione, anche se non influisce sulla frequenza delle ecchimosi, possa ridurne le dimensioni (Uzun et al., 2016).

Riflettendoci su, in effetti, essendo il calibro della siringa molto piccolo, iniettare un farmaco velocemente porta ad una pressione veramente elevata sui tessuti (una famosa pubblicità direbbe: "è questione di fisica!")... se oltre a questo trauma si considerasse la tipologia di farmaco inoculato si potrebbe spiegare perché spesso si formano ecchimosi o ematomi...

Al rientro dalle ferie quindi mi impegnerò a somministrare l'EBPM nei tempi suggeriti da Uzun...certo, sarò un po' più lenta nel giro della terapia... vorrà dire che partirò un po' prima!


mercoledì 10 agosto 2016

Il movimento "Choosing Wisely"

Durante l'ultimo convegno AIURO a cui ho partecipato (maggio 2016) mi sono imbattuta per la prima volta in "Choosing Wisely"...

... per chi, come me prima di allora, non lo conoscesse, ne faccio una breve descrizione.

L'iniziativa nasce negli USA, a seguito del dibattito suscitato dalla riforma sanitaria di Obama che richiedeva una revisione e ridistribuzione della spesa sanitaria, al fine di estendere la copertura sanitaria alla maggior parte dei cittadini statunitensi.

Visto che i medici statunitensi si sono dichiarati favorevoli alla riforma, a patto che non fossero intaccati i loro proventi, sono state analizzate le possibili fonti di spreco e si è visto come il 30% delle prescrizioni mediche fossero inutili.

Nel 2010 le società scientifiche sono state invitate a stilare una lista di cinque pratiche inutili, o meglio utilizzate in maniera inapproriata (inutilità evidenziata dalla best practice) ed ancora in uso.

Nell'aprile 2012, l'ABIM Foundation lancia il movimento "Choosing Wisely" con l'intento di sfatare il falso mito che per essere seguiti nel modo più appropriato, rispetto ad una problematica di salute, sia necessario essere rivoltati come un calzino! 


Contemporaneamente in Italia, nel 2010, la Società Italiana per la Qualità dell'Assistenza Sanitaria (SIQuAS) approvava la fondazione di un movimento che riproponesse un sistema sanitario di qualità sostenibile, che nacque nel dicembre 2010 e venne chiamato Slow Medicine.


In seguito Choosing Wisely è divenuto un movimento di portata internazionale e Slow Medicine ha abbracciato il progetto Choosing Wisely Italy- Fare di più non significa fare meglio.


Al progetto hanno aderito anche l'IPASVI e le associazioni di infermieri AICO, AIOSS, AIUC, AIURO e ANIMO, che nel 2014 hanno pubblicato le cinque pratiche infermieristiche a rischio di inappropriatezza.

Essendo una curiosa per natura, ho letto anche le raccomandazioni delle altre specialità... le ho trovate estremamente interessanti...non mi resta che augurarvi buona navigazione!




martedì 9 agosto 2016

La ripresa dell'alimentazione nel post operatorio

Nella mia realtà lavorativa uno dei temi su cui c'è più confusione, nella gestione del paziente sottoposto ad intervento chirurgico, è la ripresa dell'alimentazione per via orale.

Fino a qualche anno fa, se sottoposti ad anestesia generale, i nostri pazienti osservavano il digiuno il giorno dell'intervento, si alimentavano con una dieta liquida in prima giornata, pastina e frutta cotta in seconda, dieta leggera in terza e riprendevano una dieta libera dalla quarta giornata post operatoria... sempre se non avevano il SNG... altrimenti i tempi di ripresa dell'alimentazione si dilatavano fino alla ripresa della canalizzazione!

Ma vediamo cosa avviene nel post operatorio e perché è importante la ripresa dell'alimentazione precoce.

Lo stress chirurgico a cui il paziente viene sottoposto a causa dell'intervento porta ad un rilascio di glucagone, catecolamine, cortisolo e mediatori infiammatori, con conseguente aumento della glicemia, insulino resistenza e bilancio azotato negativo; in tali condizioni si può andare incontro a processi catabolici con depauperamento del patrimonio muscolare, stanchezza, aumentata intolleranza al movimento, alterazione dei processi di guarigione della ferita chirurgica, deficit immunitario con maggiore probabilità di infezioni.

Se alla sindrome da stress chirurgico si associa uno stato di malnutrizione precedente all'intervento (condizione frequente nei pazienti tumorali), le complicanze a cui il paziente potrà andare incontro possono risultare addirittura fatali! 

Sin dal 1936 Studley dimostrò che una perdita di peso del 20% era correlabile ad un aumento significativo del tasso di mortalità nei pazienti sottoposti a chirurgia per ulcera duodenale.

Uno studio condotto da Jabbar et al. nel 2003, correla inoltre il digiuno post operatorio ad un significativo aumento degli episodi di sepsi.

L'ipotesi che la prevenzione o il trattamento della malnutrizione migliori l'esito clinico di un paziente chirurgico e che in particolare riduca le complicanze infettive, è ormai un'evidenza che trova nella fisiopatologia della sindrome da stress chirurgico il suo razionale.

Si è visto inoltre che la ripresa precoce dell'alimentazione per via orale supporta l'integrità dei villi intestinali, la secrezione di IgA e dei sali biliari (contrastando la trasmigrazione batterica), stimola la produzione di muco e favorisce la contrattilità dell'intestino.

Infine è lecito sostenere che vi sia una ripresa della funzionalità dell'intestino a sei ore dall'anestesia anche in assenza di peristalsi intestinale.

Si consideri che per la chirurgia colica (Varadhan et al., 2010), dove c'è quindi un interessamento dell'intestino nella tecnica chirurgica, la ripresa dell'alimentazione con una dieta leggera dalla sera dell'intervento, coadiuvata da un apporto calorico supplementare (drink energetici somministrati 2-3 volte al giorno) fino alla ripresa della dieta libera è fortemente raccomandata (grado di evidenza A).

I protocolli ERAS prevedono di norma una ripresa dell'idratazione per via orale alla comparsa dello stimolo della deglutizione (in assenza di PONV), un primo carico glucidico a due ore dal risveglio, da ripetere a quattro ore e una cena leggera la sera dell'intervento.

Concludendo... previa valutazione della PONV... per cortesia facciamo mangiare i pazienti!





lunedì 8 agosto 2016

Come stimolare la motilità intestinale?

L'ileo post-operatorio è un problema che nella chirurgia colica si presenta circa nel 30% dei casi, ma è una complicanza da non sottovalutare anche nelle altre chirurgie!

Luckey et al., nel 2003 stabilirono la multifattorialità della causa dell'ileo post-operatorio: l'utilizzo di oppioidi, il sovraccarico di liquidi nell'intra e post-operatorio, la manipolazione con conseguente infiammazione dell'intestino durante la tecnica chirurgica.

Ne consegue che anche la prevenzione si baserà su un approccio multimodale.

Una revisione sistematica della Cochrane del 2016 (Guay, Nishimori, Kopp) stabilisce che l'utilizzo dell'analgesia tramite cateterino peridurale di anestetico locale nella chirurgia addominale, non solo migliora il controllo del dolore post operatorio, ma favorisce anche la ripresa della funzionalità intestinale, con la comparsa di flatus, in alcuni casi, il giorno stesso dell'intervento.

Come già detto nel post "Troppo pieno o troppo vuoto?" un eccesso di fluidi intraoperatori porta ad un accumulo di liquidi nel terzo spazio, con imbibizione delle pareti intestinali e traslocazione batterica.

Una revisione sistematica del 2015 (Watt et al.) sostiene che la chirurgia laparoscopica riduce lo stress chirurgico: i valori di PCR (proteina c reattiva) e di IL-6 (interleuchina-6) nel post-operatorio sono minori nei soggetti sottoposti a laparoscopia rispetto ai valori riscontrati nei soggetti sottoposti a laparotomia.

Una revisione del 2013 (Keller, Stein), che mette a confronto l'utilità dell'alvimopan (farmaco utilizzato negli Stati Uniti per facilitare la ripresa della motilità intestinale) e quella del chewingum, conclude che la gomma da masticare, assunta sin da prima dell'intervento ed in seguito nel postoperatorio, promuove il fisiologico svuotamento gastrico e la motilità gastrointestinale e, considerando il rapporto costo/beneficio, ne raccomanda l'uso!

Sin dal 2003, Miedema e Johnson affermano che l'uso di ossido di magnesio (1g due volte al giorno dalla sera dell'intervento fino alla dimissione) per via orale agisce come lassativo osmotico, favorendo la motilità intestinale.

Infine nel post precedente, "Quando mobilizzare il paziente dopo l'intervento chirurgico?", abbiamo annoverato tra i benefici della mobilizzazione precoce anche la ripresa della motilità intestinale...

Concludendo: la prevenzione dell'ileo paralitico si ottiene mediante un approccio multimodale che passa dalla gestione anestesiologica nell'intra e nel post operatorio, alla tecnica chirurgica, alla gestione infermieristica del paziente nel post operatorio... e allora... buon lavoro a tutti!


domenica 7 agosto 2016

Quando mobilizzare il paziente dopo l'intervento chirurgico?

Un altro aspetto di competenza infermieristica del protocollo ERAS è la mobilizzazione precoce del paziente nell'immediato post operatorio. 

Ma con l'intolleranza ortostatica come la mettiamo?

Non starò ad enfatizzare le disastrose conseguenze che comporta l'immobilizzazione prolungata, chi di voi non ha mai sentito dire "il letto alletta"

Kehlet nel 2002 sottolinea che l’allettamento non solo favorisce l’insulino-resistenza e il catabolismo muscolare con conseguente diminuzione della forza, ma influisce negativamente anche sulla funzione polmonare e sull’ossigenazione dei tessuti, oltre ad aumentare il rischio di tromboembolismo. 

La prima mobilizzazione il giorno stesso dell'intervento ha come obiettivo proprio quello di evitare le problematiche legate all'immobilizzazione, oltre il favorire la canalizzazione e l'autonomia del paziente nel più breve tempo possibile. Il protocollo prevede che il paziente rimanga fuori dal letto per almeno due ore il giorno dell'intervento, che diventano sei in prima giornata.

D'altro canto in sanità si parla fino alla nausea di prevenzione del rischio di cadute, di patient safety... dopo aver informato il paziente sui rischi legati all'anestesia come possiamo pensare di tirarlo giù dal letto così presto?

Sull'intolleranza ortostatica ci sono studi contraddittori, in alcuni si evidenzia un aumento del rischio mobilizzando il paziente a 6 ore dall'intervento rispetto alla prima mobilizzazione effettuata a 24 ore dall'intervento! (Jans et al., 2011; Bundgaard-Nielsen et al., 2009).

Di contro, Morris et al., nel 2010, hanno pubblicato una linea guida di pratica clinica riguardante la mobilizzazione precoce nel paziente ortopedico sottoposto ad intervento chirurgico, dove affermano che la mobilizzazione a 6 ore dall'intervento non comporta un aumento delle conseguenze avverse per il paziente rispetto alla mobilizzazione a 16,8 ore praticata in precedenza.

Personalmente penso che, come sempre nella pratica infermieristica, è di fondamentale importanza la valutazione del paziente, la sua anamnesi remota e prossima, l'individuazione dell'eventuale rischio, la valutazione dei parametri vitali, la compliance del paziente alla manovra (che risulta maggiore se istruito precedentemente sui benefici che la mobilizzazione precoce comporta), insomma la personalizzazione delle cure nonostante l'utilizzo di protocolli standardizzati.

Per ciò che concerne la mobilizzazione precoce presumo invece che la problematica sia altra...
... nella mia realtà lavorativa durante il turno pomeridiano vi è un minor numero di operatori sanitari, oberati di lavoro, e spesso non si hanno le risorse per poter mobilizzare precocemente i pazienti in sicurezza... 
...ma questa è un'altra storia e mi ero ripromessa di non permettere alla frustrazione di contaminare la voglia di cambiamento e di crescita!


sabato 6 agosto 2016

Post Operative Nausea and Vomiting (PONV): come prevenirla?

Sin dal 1840, anno in cui è stata introdotta l'anestesia generale, si riconobbero la nausea e il vomito post operatori come effetti collaterali comuni legati alla pratica anestesiologica (McGill, 1873).

Nel 2010 Franck et al., stabilirono che circa il 30% dei pazienti sottoposti ad anestesia presentano PONV, questa percentuale arriva all'80% in quei soggetti, non sottoposti a profilassi, che presentano fattori di rischio quali: giovane età, sesso femminile, non fumatori, con precedente storia di cinetosi (Apfel et al., 1999).

Nonostante la PONV comporti raramente complicanze gravi per la salute del paziente, l'impatto sulla qualità di vita e sul costo delle cure sanitarie sono tali da attirare l'attenzione di diversi studiosi.

I pazienti infatti riferiscono che la nausea e il vomito post operatori sono tra i sintomi più angoscianti e che sarebbero disposti a pagare piuttosto che soffrirne (Gan et al., 2001; Kerger et al., 2007; Wagner et al., 2007).
Infine non è da trascurare il fatto che la sintomatologia, se protratta nel tempo, può portare ad uno stato di disidratazione, ad alterazioni idroelettrolitiche e ad un ritardo nella ripresa dell’alimentazione. 


La ricerca clinica dimostra che la PONV è causata soprattuto dall'utilizzo dell'anestesia inalatoria e di analgesici oppiacei (Apfel et al., 2012; Binning et al., 2011).
Canzone et al. in uno studio del 1998 suggerivano l'utilizzo del propofol e.v. al posto degli anestetici inalatori, poiché sembrava avere proprietà antiemetiche.
Sembra inoltre che ci sia un rischio aumentato di PONV negli interventi in cui vi è maggiore trauma tissutale e infiammazione.

Detto ciò, come prevenire la nausea e il vomito post operatori?

Mentre Goll nel 2001 osservò come la somministrazione di ossigeno all'80% per due ore sia più efficace dell'ondasetron nel ridurre la PONV, Apfel et al., nel 2004 stabilirono che, sebbene i singoli farmaci antiemetici abbiano efficacia simile nel contrastare il sintomo, la combinazione di più sostanze porta ad un effetto additivo, riducendo sensibilmente il rischio relativo (del 25% per ogni farmaco combinato).

Concludendo, è consigliabile un approccio multimodale al problema, che comprenda una valutazione del rischio del singolo paziente e la somministrazione di farmaci antiemetici combinati come profilassi. 
E' raccomandato l'utilizzo dell'anestesia endovenosa con farmaci a breve emivita al posto dell'anestesia inalatoria, la somministrazione di ossigeno ad alti flussi nell'immediato post operatorio e una terapia del dolore che non comprenda farmaci oppiacei o favorenti emesi.

Ed ora un ultimo dubbio...

...prima di informarmi su questo argomento, nel somministrare le terapie ai pazienti, in prima giornata post operatoria vedevo spesso la prescrizione di antiemetici anche in pazienti che non avevano assolutamente manifestato il sintomo e mi chiedevo se non fosse un farmaco inutile...

... onestamente ancora oggi non so darmi una risposta, qualcuno di voi può chiarirmi le idee in proposito?

martedì 2 agosto 2016

"Il più valido sistema per raffreddare un uomo è sottoporlo ad anestesia" (R.W. Pickering)

Dopo qualche giorno di pausa rieccoci...
Il titolo del post di oggi è una citazione che mi ha colpito al convegno AIURO del 2014... quindi ringrazio la relatrice del congresso, Paola Striglia, per avermela fatta conoscere...

Quante volte in reparto al rientro dalla sala operatoria il paziente trema e ha freddo? 
Non ci sono coperte sufficienti a scaldarlo.

Per noi addetti ai lavori è una cosa abbastanza comune... certo... la sala operatoria è fredda... i brividi passeranno... ma spesso si trascura tutto ciò che è collegato a questo fenomeno.

L’ipotermia perioperatoria accidentale avviene in una grande percentuale di interventi e dipende da diversi fattori, quali: l'abbigliamento o meglio la sua mancanza nell'intraoperatorio, la temperatura ambientale della sala operatoria, i processi di vasodilatazione a seguito della preanestesia, l'assenza dei movimenti muscolari e il rallentamento del metabolismo dovuti all'anestesia, l'utilizzo di antisettici per la disinfezione della cute, l'esposizione di ampie cavità corporee per la durata dell'intervento, l'irrigazione con liquidi freddi, l'infusione di liquidi freddi (Rigon e Thiene, 2003).

In condizioni normali la temperatura corporea si attesta tra i 36,5°C e i 37°C, ma in seguito ad anestesia è molto comune che questa possa abbassarsi di almeno 2°C, fino ad una perdita di 6°C.

Mediamente durante l’intervento il paziente va incontro ad una diminuzione della temperatura di circa 3°C (Vaughan et al., 1981), di cui 1-1,5°C nella prima ora e i successivi più lentamente.

La fase iniziale dell’ipotermia è dovuta agli effetti dei farmaci anestetici, che portano all’attivazione della vasodilatazione periferica, con una ridistribuzione del calore dagli organi interni alla cute. 
In seguito all’induzione dell’anestesia un ulteriore calo della temperatura corporea è dovuto al ridotto metabolismo, all’assenza dei movimenti muscolari, alla minore attività dei muscoli respiratori, e alla dispersione del calore per irraggiamento e convezione attraverso la pelle e il sito chirurgico (Matsukawa et al., 1995).

Alcuni studi (England et al., 1996; Beaufort et al., 1995; Heier et al., 1991; Coldwell et al., 2000) hanno evidenziato che l’ipotermia prolunga l’azione della maggioranza dei farmaci anestetici, probabilmente per il ridotto metabolismo epatico e renale.

È stato visto che nei soggetti anziani con patologie cardiache, l’ipotermia comporta un rischio tre volte superiore di andare incontro ad eventi coronarici, questo perché terminata l’anestesia vi è in circolo una maggiore quantità di noradrenalina che associata allo sblocco del centro della termoregolazione porta a vasocostrizione e picchi ipertensivi, con il rischio di sviluppare una tachiaritmia ventricolare (Frank et al., 1995).


L’ipotermia, attraverso la vasocostrizione, l’alterata funzionalità piastrinica  e la compromissione del sistema immunitario, porta ad un rischio aumentato di infezione del sito chirurgico (Kurz et al., 1996).

Quindi, ricapitolando, da almeno vent'anni si è a conoscenza degli effetti negativi dell'ipotermia accidentale perioperatoria, e allora che si fa?

Riscaldiamo il paziente!
Ci sono diverse strategie utilizzabili, dall'infusione di liquidi endovena a temperatura controllata, all'utilizzo di mezzi per il riscaldamento attivo: termocoperta, warm touch, materassino ad acqua...
... a voi la scelta!

sabato 30 luglio 2016

Troppo pieno o troppo vuoto?

Un altro nodo dell'ERAS è la gestione dei liquidi intraoperatori.

Ma prima facciamo un passo indietro... in quali condizioni arriva il paziente in sala operatoria?

Se ha osservato il digiuno assoluto dalla mezzanotte e ha assunto una preparazione intestinale meccanica, è presupponibile che sia disidratato, quindi cosa si fa? Riempiamolo!

Il sovraccarico di liquidi porta a maggior pre-carico e post-carico cardiaco con conseguente affaticamento cardiovascolare e sovraccarico polmonare, ma non solo! La maggior parte dei fluidi infusi andranno ad accumularsi nel terzo spazio, imbibendo tessuti ed organi, tra cui l'intestino... e quindi? 
Il paziente presenterà un ritardo della ripresa della funzionalità intestinale, intolleranza all’assunzione dei liquidi per via orale, traslocazione batterica dall’interno all’esterno del lume intestinale, sepsi, edemi e difficoltà di movimento, riduzione dell’apporto di ossigeno ai tessuti e stretching della ferita!

Tutto ciò influirà sul dolore post operatorio che, per essere gestito, necessiterà dell'utilizzo di oppioidi, che a loro volta comporteranno nausea e vomito e l'accentuazione dell'ileo funzionale post operatorio.

In queste condizioni il paziente non riuscirà ad alimentarsi, si attiveranno i processi catabolici, con conseguente perdita della forza muscolare e fatigue, andando così incontro ad una convalescenza sostanzialmente più lunga e ad un ritardo del ripristino delle normali funzioni.

Diversi studi hanno dimostrato che il sovraccarico di liquidi è dannoso e che tale pratica va abbandonata.

Uno studio danese randomizzato, condotto nel 2003 da Brandstrup B et al., ha dimostrato una riduzione delle complicanze adottando un regime restrittivo di infusioni.
Nel 2006 MacKay G et al., evidenziarono un vantaggio per il paziente nell'utilizzo della terapia infusionale restrittiva, con somministrazioni delle sole infusioni necessarie a mantenere l’omeostasi, associata alla minimizzazione delle perdite.
Secondo gli studi di Lobo DN et al., del 2002 e di Tambyraja AL et al., del 2004, è inoltre  da evitare un eccessivo introito di sodio, poiché ritarda il ripristino della motilità intestinale.

Infine, per evitare un sovraccarico di liquidi nel post operatorio, sarebbe consigliabile la sospensione della terapia infusionale già 2 ore dopo l’intervento (Lobo DN, 2009).  

Certo... in un mondo perfetto dove il paziente non viene purgato e beve fino a due ore prima dell'intervento (quindi arriva in sala operatoria ben idratato), tutto ciò potrebbe essere applicabile!

Questo cosa sta a significare? Che la gestione dei liquidi nell'intraoperatorio in fin dei conti dipende anche da noi e da come gestiamo il paziente nel preoperatorio... Non credete?

giovedì 28 luglio 2016

L'Utilità del catetere peridurale

L'argomento che tratteremo oggi è di competenza medica/anestesiologica; vorrei semplicemente illustrarvi il razionale che spinge il progetto ERAS a prediligere, quando possibile, l'analgesia/anestesia peridurale.

Un intervento chirurgico è sempre un evento stressante per l'organismo.

La risposta allo stress chirurgico avviene attraverso varie vie (neuroendocrina, immunitaria, metabolica), la più importante delle quali è la stimolazione afferente nervosa dell'ipofisi anteriore e dell'ipotalamo, che porta alla produzione e liberazione in circolo di catecolamine e glucocorticoidi (Wilmore DW, 2002).

La riduzione della risposta corporea allo stress chirurgico è  uno dei principi fondamentali dei protocolli ERAS. 

Già nel 2000 Roger et al. dimostrarono l’efficacia dell'anestesia/analgesia peridurale nella riduzione dello stress chirurgico con conseguente complessiva riduzione della mortalità e delle complicanze. 

Questo perché la tecnica peridurale consente di ridurre la concentrazione del farmaco per via sistemica con conseguente abbattimento degli effetti collaterali quali eccessiva sedazione post operatoria e PONV (Walker and Smith, 2009). 

Inoltre il livello di posizionamento del catetere consente un controllo ottimizzato del dolore nell'area chirurgica in questione (Moiniche, Kehlet, and Dahl, 2002). 

L’analgesia epidurale ha dimostrato di essere superiore all’analgesia per via endovenosa nel controllo del dolore post-operatorio e di ridurre l'ileo paralitico post-operatorio (Jorgensen H. et al., 2000) grazie al blocco selettivo delle fibre δ nocicettive. 

Detto ciò, sull'utilizzo del catetere peridurale io personalmente nutro i seguenti dubbi:

  1. quanto è sicuro per il paziente il catetere peridurale? 
  2. visto che l'inserzione del catetere peridurale è una manovra invasiva, per quali interventi ha senso utilizzarlo?
  3. potrebbe scoraggiare di contro la mobilizzazione essendo considerato come un ulteriore ingombro?
Lascio a voi le risposte alle mie domande...

mercoledì 27 luglio 2016

L'inutilità della preanestesia

Fino al 2012 (anno in cui abbiamo iniziato ad adottare il protocollo ERAS in Unità Operativa) negli ordini della farmacia era tassativo richiedere vagonate di benzodiazepine da somministrare ai pazienti prima di accompagnarli in sala operatoria.

Il razionale di questa pratica consiste nel fatto che la sedazione preoperatoria comporterebbe un aumento della soglia del dolore, una riduzione delle secrezioni bronchiali e salivari e un potenziamento dell'azione dei farmaci anestetici. 

Alcuni studi condotti (Caumo et al., 2002; Moiniche S. et al, 2002) non solo non confermano le suddette teorie, ma sfatano anche i benefici che questa pratica possa portare sulla gestione dell'ansia. 

Inoltre una revisione della Cochrane del 2009 (Walker K.J., Smith A.F.) ha dimostrato che la preanestesia comporta un prolungamento della fase di incoscienza post-operatoria, ostacolando la ripresa precoce dell'alimentazione e della mobilizzazione.

A pensarci bene... a proposito di "ottimizzazione delle risorse in Sanità": la preanestesia oltre ad essere inutile per il paziente era anche un costo per l'Ospedale... ora il numero di flaconi di bromazepam che si consumano è dieci volte inferiore!


martedì 26 luglio 2016

1000!!



Ringrazio tutti coloro che in questi sei giorni mi hanno letto, condiviso, sostenuto... raggiungere le mille visualizzazioni così presto è una grande soddisfazione. L'unica cosa è che speravo si aprisse un dibattito... cmq... visto che l'idea era quella della condivisione di conoscenze ed esperienze se qualcuno fosse interessato a postare... basta dirlo!!
Grazie ancora...
Maria Anna

No al sondino nasogastrico

In alcuni interventi chirurgici (fortunatamente non in tutti) è previsto il posizionamento del sondino nasogastrico: il razionale sarebbe che a seguito dell'anestesia generale il paziente presenta un ileo funzionale post-operatorio, quindi il sondino servirebbe a prevenire la distensione gastrica e il vomito. 

Inoltre negli interventi di chirurgia colica servirebbe a proteggere l'anastomosi riducendo il rischio di deiscenze.

A pensarci il ragionamento fila... quindi, nonostante la maggiore incidenza di febbre, atelettasia, pneumopatia, vomito, reflusso gastroesofageo legata all'utilizzo del SNG (Cheatham M.L. et al., 1995) è giusto mantenerlo fino alla ripresa della canalizzazione intestinale... e invece no!

Infatti una metanalisi Cochrane (Nelson R. et al) già nel 2007 ha stabilito che in assenza di decompressione nasogastrica si ha un ripristino precoce della motilità intestinale e che la sua assenza non è collegabile ad un aumento delle deiscenze anastomotiche.

Detto ciò mi chiedo... allora perchè infliggere "preventivamente" al paziente il sondino?

lunedì 25 luglio 2016

Dar da bere agli assetati!

Quanto dura da voi una seduta operatoria?

Nella mia realtà lavorativa le sale aprono alle 8 e terminano alle 21.

Prima dell'adozione del protocollo ERAS il paziente in lista operatoria si alimentava con un brodo la sera precedente l'intervento (la cena viene dispensata alle 18!) e osservava il digiuno dalla mezzanotte.

I più sfortunati, programmati per il pomeriggio, organizzavano dei sit-in davanti al posto infermieri fino alla tanto attesa chiamata della sala operatoria.

Pensare che già nel 1883 Lister raccomandava il digiuno dai cibi solidi a 6 ore dall'intervento e dai liquidi a 2 ore... e poi?
Un esperimento condotto nel 1974 da Roberts e Shirley, su una scimmia a cui furono instillati 0.4ml/Kg di acido nel ramo bronchiale destro, ha portato ad aspirazione polmonare.

In seguito nel 1999 l'American Society of Anesthesiology ha stabilito che i tempi di digiuno previsti da Lister erano sufficienti a permettere lo svuotamento gastrico e a prevenire la polmonite ab ingestis.

Studi controllati randomizzati (Nygren J. et al., 2001; Noblett SE. et al., 2006) hanno inoltre dimostrato che un carico glucidico di 800 ml prima della mezzanotte e di 400 ml due ore prima dell'intervento riduce il senso di fame e di sete, diminuisce l'ansia (Nygren J., 1995) e il fenomeno dell'insulino-resistenza post operatoria (Hausel J. et al., 2001; Nygren J., 2006).

Quindi ora che si fa?

Il paziente cena liberamente la sera prima dell'intervento, può spiluccare fino alla mezzanotte se ne ha voglia e bere fino a due ore prima dell'intervento.

In teoria, se l'intervento è programmato per il pomeriggio potrebbe anche fare una colazione leggera al mattino... ma si sa come vanno le cose... i programmi operatori potrebbero subire delle variazioni e quindi purtroppo soprassediamo sull'ultimo punto.

Certo, potremmo fare meglio, ma ritengo che già così sia un bel passo avanti!

domenica 24 luglio 2016

L'inutilità della preparazione intestinale

Perchè purghiamo il paziente prima dell'intervento?

L'unico motivo plausibile è che a seguito dell'induzione all'anestesia si possa avere un rilascio degli sfinteri... 
...ma questo spiacevole inconveniente è sufficiente a giustificare il fargli bere litri di acqua e fosfato di sodio o macrogol? Oppure a legittimare i tanto temuti clisteri evacuativi?

Una revisione sistematica del 2011 della Cochrane (Güenaga K.F., Matos D., Wille-Jørgensen P.) sull'utilità della preparazione intestinale nella chirurgia colorettale, stabilisce che non ci sono prove statisticamente significative riguardo al beneficio che questa procedura comporterebbe, concludendo che questa pratica può essere omessa, poiché non diminuisce il rischio di complicanze quali deiescenze anastomotiche o infezioni del sito chirurgico. 

Se ritenete che questo non sia sufficiente, basti pensare al fatto che nel periodo preoperatorio il paziente subisce un calo ponderale di circa 4 Kg, di cui 1,2 adducibili alla preparazione intestinale!

L'esecuzione della preparazione intestinale meccanica è stata associata a disidratazione (con conseguenti ipotensione e tachicardia che con l'anestesia generale possono portare ad un aumento del rischio di problematiche cardiovascolari intraoperatorie), perdita di elettroliti, maggiori complicanze settiche, prolungato ricovero, ritardata ripresa della canalizzazione, maggiore stress (Holte K. et al., 2004)

Ora mi chiedo... se per la chirurgia colorettale tutto questo è vero... non dovrebbe essere a maggior ragione inutile nelle altre chirurgie?

sabato 23 luglio 2016

Il Patient Learning Materials: come produrre materiale informativo scritto di qualità

Il progetto ERAS prevede che il counselling venga svolto seguendo un approccio multimodale: questo è possibile associando al colloquio operatore/paziente l'utilizzo del Patient Learning Materials.

Diversi studi condotti (Kessels, 2003; Demir et al., 2008) hanno dimostrato come circa il 40-80% delle informazioni fornite oralmente vengano dimenticate, mentre quasi la metà viene ricordata in modo non corretto. 
Ciò può avere diverse cause: la condizione di stress in cui il soggetto candidato ad intervento si trova, ad esempio, può portare una difficoltà maggiore sia nella reale comprensione del messaggio, sia nella ritenzione dell'informazione.
Di contro, quando l'educazione è supportata da materiale scritto si è evidenziata una riduzione dell'ansia, dell'uso di analgesici e della durata del ricovero.

Ma come produrre materiale informativo di qualità?

La McGill University Health Center a tal proposito ha stilato una lista di criteri da seguire affinché il materiale prodotto possa ritenersi efficace. 
I materiali informativi sono: 
  1. sviluppati a partire dai bisogni informativi dei pazienti e dei familiari interessati e dalle priorità evidenziate dai professionisti della salute;
  2. evidence-informed, scritti in modo comprensibile ed aggiornati rispetto agli standard correnti della letteratura sanitaria;
  3. costruiti per facilitare l'apprendimento dei pazienti e dei familiari;
  4. valutati dai pazienti/familiari e dai professionisti della salute prima dell'approvazione finale e della loro pubblicazione;
  5. sottoposti ad una commissione di esperti clinici e metodologici per l'approvazione finale;
  6. revisionati a scadenza regolare quinquennale dal Dipartimento/Gruppo di lavoro che li ha prodotti e ogni qualvolta si registri un cambiamento significativo nella pratica o nella letteratura di riferimento.


Studi sul materiale informativo scritto (Smith et al., 2014; Chen, 2013; Murphy et al., 2011; Badarudeen, Sabharwal, 2010; CMS, 2010; Demir et al., 2008) hanno stabilito che:

- l'obiettivo da raggiungere deve essere esplicitamente dichiarato;
- le informazioni devono essere semplici, sintetiche e comprensibili;
- l'interiorizzazione dei contenuti è fortemente influenzata dall'età e dal livello culturale del paziente;
- il grado di leggibilità del materiale deve essere pari o inferiore al sesto;
- il numero di pagine deve essere ridotto (non più di 20) e i capitoli non più di quattro.

Insomma non è un lavoro semplice!!! Ma d'altra parte anche fare l'infermiere non lo è, non credete?




venerdì 22 luglio 2016

Il Counselling Pre Operatorio

Il primo punto del progetto ERAS è il counselling preoperatorio, e a mio parere anche il punto più importante.
Sin dal 1998 l'Organizzazione Mondiale della Sanità riconosceva l'importanza dell'Educazione terapeutica perché: "permette al paziente di acquisire e mantenere le capacità e le competenze che lo aiutano a vivere in maniera ottimale con la sua malattia...si tratta di un processo continuo, integrato nell'assistenza sanitaria incentrato sul paziente... il suo scopo è di aiutare il paziente e la sua famiglia a comprendere la natura della malattia e dei trattamenti, a collaborare attivamente alla realizzazione del percorso terapeutico e a prendersi cura del proprio stato di salute, per mantenere e migliorare la propria qualità di vita" (W.H.O., Working Group, 1998).

Diversi studi hanno evidenziato i benefici dell'educazione terapeutica nei pazienti affetti da patologie croniche quali: l'aumento delle conoscenze in merito agli stili di vita più sani, il miglioramento della compliance terapeutica, il miglioramento del livello del dolore, nei pazienti diabetici profili glicemici più stabili (Dawes M.G. et al, 2010; King A.B. et al, 2007; Undermann B.E. et al, 2004).

Anche nei pazienti candidati ad intervento chirurgico  sono stati evidenziati dei vantaggi collegati all'educazione terapeutica, come: il favorire la partecipazione e il ruolo attivo del paziente nel perioperatorio, la percezione da parte del paziente di essere partecipe delle decisioni di cura a cui consegue una maggiore motivazione a seguire il percorso terapeutico (Angioli R. et al, 2014; Jlala H.A. et al, 2010; Yilmaz M. et al, 2012).
Di contro nel paziente candidato ad intervento chirurgico si riscontrano dei limiti dettati dall'ottimizzazione dei tempi di ricovero e quindi dalla riduzione delle degenze che porta, come conseguenza, ad avere sempre meno tempo a disposizione per l'educazione, e spesso anche a dimissioni precoci in pazienti che richiedono maggiore assistenza domiciliare.
Per ovviare ai limiti sopra descritti si è pensato di introdurre l'educazione preoperatoria.

Il Counselling preoperatorio ha la finalità di migliorare il decorso, ridurre i tempi di recupero, facilitare l'instaurarsi della relazione di aiuto. 
L'incontro deve essere un momento strutturato in cui il professionista, valutate le risorse dell'assistito, pianificherà il piano di educazione terapeutica. 
Per essere efficace il counselling deve essere programmato dalle due alle quattro settimane prima dell'intervento chirurgico, poiché in tempi sufficientemente lontani dall'evento il paziente è più ricettivo ed inoltre ha davanti a sé più occasioni per rafforzare l'apprendimento.
Durante l'incontro è bene utilizzare un approccio multimodale, associando al classico colloquio l'utilizzo del Patient Learning Materials (materiale informativo/didattico, raccomandato dalla letteratura, che può assumere diverse forme: carteceo, CD didattico, programma web-based, video).

Nella nostra realtà lavorativa siamo riusciti a trovare uno spazio per il counselling durante il prericovero, in questa occasione il paziente oltre ad eseguire gli esami ematici e strumentali e ad essere valutato dall'anestesista e dal chirurgo, incontra anche l'infermiere... Il tutto è nato per esigenze organizzative legate al fatto che il paziente va in sala operatoria il giorno del ricovero e così facendo i tempi operatori sono ottimizzati al meglio... noi comunque l'abbiamo sfruttato a nostro vantaggio e soprattutto del paziente... si fa quel che si può!


giovedì 21 luglio 2016

Enhanced Recovery After Surgery

Dal 2011 l'Unità Operativa in cui lavoro (Urologia) ha deciso di adottare il protocollo ERAS.
L'Enhanced Recovery After Surgery nasce per la chirurgia colorettale ad opera del professor Kehlet ed è stata in seguito esportata alle altre chirurgie.
L'ERAS consiste in un approccio multimodale e multiprofessionale che rivede la pratica clinica ed assistenziale in diversi momenti del percorso pre- intra- e post-operatorio; il suo fine è quello di ridurre lo stress metabolico legato all'intervento chirurgico facendo in modo che il paziente possa ritornare al più presto alle proprie abitudini di vita.
I punti clinico/assistenziali presi in esame sono schematizzati nel grafico seguente:



E adesso???

L'idea è quella di condividere con altri infermieri come me conoscenze, dubbi, discussioni, ricerche ed evidenze...
... però prima di tutto mi presento:
mi chiamo Maria Anna Risolo e sono un'infermiera dal lontano dicembre 2004. Durante il mio percorso universitario mi è stato detto per tre anni che la nostra era una professione in crescita, che le cose stavano cambiando, ma ahimè ad oggi ancora non ravviso nulla di tutto ciò.
Le problematiche e le frustrazioni della nostra professione sono note a tutti coloro che la esercitano (mancanza di un adeguato riconoscimento della professione sia da un punto di vista sociale che economico, scarse possibilità di crescita in ambito clinico/assistenziale nonostante l'attivazione di numerosi percorsi di studi post formazione di base, mancato riconoscimento dei carichi di lavoro e conseguente usura della propria qualità di vita, etc..) ed è per questo che non è mia intenzione occuparmi di questi temi: ciò che ho capito nel corso di questi anni è che il cambiamento e la crescita avvengono in ognuno di noi!
L'altra cosa che ho capito in questi anni è che l'infermieristica è un'area troppo vasta per presumere di conoscere tutto lo scibile, inoltre è in continua evoluzione e quindi la maggior parte delle certezze che avevo nel 2004 ora sono messe in discussione, quindi l'idea è questa: aiutiamoci ad essere sempre sul pezzo! Che ne dite?
Nei prossimi post condividerò con voi le mie conoscenze, premetto che non ho la pretesa di essere un guru dell'infermieristica quindi vi esorto a discutere con me sui temi trattati in modo da migliorarci.
Ringrazio anticipatamente chiunque abbia voglia di partecipare alla mia crescita professionale e a presto!
Maria Anna